La resilienza ai disastri naturali richiede non solo limitare i danni immediati, ma anche costruire strategie a lungo termine. È un processo, nel quale entrano in gioco diversi elementi: prendendo come esempio il nostro lavoro sugli incendi in Liguria, ne parliamo con Paolo Fiorucci, direttore associato di Fondazione CIMA
Resistere, adattarsi e riprendersi da eventi avversi quali alluvioni, incendi e siccità. Questo è, in estrema sintesi, il concetto di resilienza ai disastri naturali; concetto che oggi, in occasione della Giornata internazionale per la riduzione del rischio, vogliamo approfondire.
Perché se il termine resilienza è oggi molto popolare, quasi onnipresente quando si parla di crisi climatica, disastri, danni ambientali, più difficile è capire cosa in concreto implichi e richieda. D’altronde, la resilienza ha una caratteristica peculiare: ha bisogno di tempi lunghi per essere costruita, e le azioni che ne permettono lo sviluppo (in una determinata area, in una comunità, più o meno grandi) hanno spesso radici profonde che sfuggono a una prima osservazione. Richiede infatti non solo di saper limitare i danni immediati di un disastro ma anche di costruire strategie a lungo termine, con interventi su più livelli, da quello tecnologico e fisico, per esempio in termini d’interventi sul territorio, a quello sociale, che chiama in causa l’informazione e le capacità di risposta di una popolazione.
Quello della resilienza è insomma non (solo) un obiettivo ma anche un processo. Processo che andrebbe costruito il più possibile nei “tempi di pace”, e non in fase d’emergenza; caratteristica che purtroppo si scontra con l’urgenza posta dai cambiamenti climatici, i cui effetti non sono solo incombenti ma già attuali.
Gli incendi in Liguria tra storia e scienza
Per Fondazione CIMA, contribuire allo sviluppo e al rafforzamento della resilienza nei territori in cui lavoriamo è un impegno costante, che permea molti nostri progetti nazionali e internazionali. Un impegno in corso ma che, almeno in alcuni casi, ha raggiunto risultati significativi. Un esempio viene dal lavoro condotto sugli incendi in Liguria, la Regione che ospita la nostra sede e fra i membri fondatori. Qui, fino agli anni ’60 circa, i boschi e le aree montane erano ricche di popolazione e attività: allevamento, coltivazione (in particolare del castagno), raccolta della legna. Quando la popolazione si è trasferita nelle aree urbane, molti piccoli paesi dell’entroterra sono diventati “villaggi fantasma” e i boschi sono rimasti abbandonati; la vegetazione ha iniziato a prosperare.
«La Liguria è diventata una delle regioni più boscose d’Italia. Ma più bosco significa anche più combustibile: a partire dagli anni ’70, gli incendi sono diventati sempre più numerosi ed estesi. Non è un caso che proprio la Liguria sia stata una delle prime regioni a dotarsi di un piano per la difesa dagli incendi: il primo risale già al 1975», spiega Paolo Fiorucci, direttore associato del programma The Emergent Nexus: Risk Resilience, Biodiversity and Ecosystem Functioning di Fondazione CIMA. «Alla fine degli anni ’90, inoltre, la Regione ha chiesto all’Università di Genova di sviluppare un modello per la previsione degli incendi boschivi; è nata così, qualche anno dopo, l’attività di ricerca di Fondazione CIMA (all’epoca centro interuniversitario a cui l’Università di Genova afferiva)».
Dal punto di vista tecnologico, le attività di ricerca hanno portato negli anni allo sviluppo di due diversi modelli: RISICO, che in base alle condizioni ambientali valuta la probabilità d’innesco di un incendio, e PROPAGATOR, che simula la propagazione del fuoco nello spazio e nel tempo. Dal punto di vista operativo, l’attività ha portato in breve tempo all’emanazione di un bollettino giornaliero, il bollettino SPIRL (Servizio Previsione Incendi Regione Liguria), che riporta un indice di pericolo in funzione delle condizioni meteorologiche, topografiche e vegetazionali. «Sulla base di queste informazioni, le istituzioni hanno potuto mettere in campo una serie di azioni di prevenzione e preparedness, in primis il pattugliamento delle aree a maggior rischio», spiega Fiorucci. «Per le strutture operative che si occupano della gestione del rischio incendi, che in Liguria è delegata al Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, è stato sviluppato un indice sintetico e di facile interpretazione (la percentuale di comuni all’interno di una provincia che supera la soglia di attenzione) che permette di stabilire se attivare o meno la fase di preparedness, cioè se prepararsi mettendo a disposizione mezzi e personale pronti a intervenire nel caso venga segnalato un innesco durante una giornata particolarmente critica. Questo è un aspetto fondamentale, perché se il territorio è pronto a intervenire i processi di propagazione del fuoco possono essere gestiti in modo efficiente: non attivarsi nell’immediato significa fronteggiare uno o più fronti di fiamma che possono estendersi nei casi peggiori per centinaia di metri complicando notevolmente le attività di spegnimento».
Il contributo di queste attività di ricerca da una parte e operative dall’altra è evidente nei dati raccolti nel corso degli anni, che evidenziano chiaramente una significativa riduzione delle aree bruciate dalla fine degli anni ’90 a oggi e in particolare nell’ultimo decennio. Gli avanzamenti scientifici hanno anche permesso, negli anni, di rendere i modelli di rischio sempre più affidabili: immagini satellitari, qualità migliore delle osservazioni a terra, dati più ricchi e completi, il recente utilizzo di tecniche di intelligenza artificiale, sono tutti elementi che hanno contribuito a migliorarne l’affidabilità.
Un successo ma anche un processo
Ma, come dicevamo, quello della resilienza è un processo, che nemmeno in Liguria può dirsi del tutto concluso. «I risultati della ricerca e il loro utilizzo nei processi decisionali da parte delle istituzioni competenti ha avuto un effetto importante nella riduzione degli impatti degli incendi boschivi. Non ancora, però, nel ridurne la pericolosità», commenta Fiorucci. Cosa significa? Che il pericolo d’incendio è ancora una costante del territorio, e la ragione è semplice: la vegetazione che brucia si ricostituisce in seguito con le stesse specie presenti in precedenza, alcune delle quali molto vulnerabili al fuoco. È il caso delle pinete, in gran parte di origine antropica, utilizzate nel secolo scorso per aumentare la copertura forestale per diverse ragioni, fra cui la riduzione del rischio idrogeologico. Ogniqualvolta l’intervento antropico interferisce con i processi naturali che si realizzano su orizzonti temporali lunghi è necessario saper comprendere gli effetti a lungo termine, ivi compresi gli eventuali disturbi, in questo caso rappresentati dalla propagazione del fuoco. Infatti, la resilienza delle pinete agli incendi boschivi, capaci di rigenerarsi abbondantemente dopo il passaggio del fuoco, garantisce da una parte la ricostituzione della copertura forestale ma al contempo mantiene elevato il rischio di incendi. Bisogna poi tenere in considerazione che, qualora gli incendi si ripetano nella stessa area con elevata frequenza, possono portare a ridurre notevolmente la capacità di rigenerarsi, con notevoli impatti sul rischio idrogeologico. Al contrario, la quasi totalità delle latifoglie, sempreverdi o caducifoglie, che potrebbe occupare buona parte del territorio regionale, con l’esclusione di alcuni suoli particolarmente selettivi, porterebbe nel tempo a una riduzione della suscettività al fuoco e a un territorio decisamente più resiliente.
«Per questo ora il processo di costruzione della resilienza agli incendi dovrà muoversi anche verso un’attenta analisi del territorio capace di identificare le priorità su cui intervenire progettando, con il supporto della ricerca, la corretta evoluzione della copertura vegetale, senza trascurare gli impatti del cambiamento climatico in atto. Un primo progetto pilota realizzato nel Comune di Spotorno a partire dal 2019 sta già dimostrando l’efficacia di questo tipo di interventi e può fornire tutte le informazioni necessarie per renderlo replicabile ed estenderlo su altre aree. Inoltre, è importante rafforzare la comunicazione del rischio alla popolazione, perché aumentare il coinvolgimento e l’informazione della società è un altro elemento importante per una resilienza concreta. Alcuni progetti di ricerca che si avvieranno nei prossimi mesi prevedono, infatti, anche azioni volte a raggiungere questo obiettivo», conclude Fiorucci. «Questo processo, al quale la ricerca scientifica può dare un contributo importante, non si costruisce comunque dall’oggi al domani: certo è che il nostro impegno deve essere costante e concreto per affrontare i rischi di oggi e mitigare quelli di domani».